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Planet Funk: l’intervista esclusiva per Lamborghini

19 Aprile 2024
Storie
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disponibili nel Lamborghini Media Center

La prima edizione del weekend Lamborghini Arena è stata accompagnata da una colonna sonora molto speciale: il gruppo italiano Planet Funk ha creato l’atmosfera perfetta per questi due giorni di festeggiamenti della passione per Automobili Lamborghini nel circuito di Imola, insieme a fan e clienti. Abbiamo parlato con Alex Neri, Marco Baroni, Dan Black e Alex Uhlmann prima dell’esclusivo concerto della Party Night a Bologna Fiere.

Come sono nati i Planet Funk?

Marco Baroni: I Planet Funk sono nati dall’unione tra due gruppi di produzione: io, Alex Neri, Gigi [Canu] e Sergio [Della Monica], oggi scomparso. Ci siamo incontrati a Londra e c’era già una grande stima reciproca, quindi abbiamo deciso di fare qualcosa insieme. Abbiamo iniziato subito a registrare nello studio di Napoli in cui aveva sede l’etichetta Bastin’ Loose, ed è così che sono nati i Planet Funk.

Qual è stata la vostra prima canzone?

Alex Neri: La prima canzone che abbiamo registrato insieme è stata “Chase the Sun”. Io e Marco avevamo vissuto un’esperienza molto spirituale e profonda a Cuba, che era stata davvero significativa per noi. Al nostro ritorno in Italia abbiamo deciso di scrivere una canzone che ne parlasse, che parlasse della ricerca della luce e dell’energia. Ne è uscito un brano molto profondo.

Marco Baroni: Volevamo fare qualcosa di diverso, più elevato di quanto avessimo mai fatto prima. Penso che lo spirito fosse quello giusto e le parole e la canzone rispecchino bene quella sensazione.

Parlando di luce, qual è la storia dietro a “Another Sunrise”?

Alex Uhlmann: Era il 2010 o il 2011 ed ero in coda al supermercato; mi sono accorto che tutti erano concentrati sul cellulare e che nessuno guardava le altre persone. Oggi è assolutamente normale, ma all’epoca non lo era. E ricordo di aver pensato: “Cosa succede? Non stiamo più comunicando”. Ho pensato che fosse un’esperienza spaventosa che ci faceva perdere delle cose. Ad esempio l’alba è bellissima, ma noi non la vediamo perché stiamo guardando il telefono. È un concetto molto semplice, ma stiamo davvero perdendo il contatto con la realtà. Quindi ho pensato che avevamo bisogno di focalizzarci sulle piccole cose che ci circondano.

Da un supermercato a… essere “bloccato nel Regno Unito”. Di cosa parla “Who Said”?

Dan Black: “Who Said” è l’ultima canzone del primo album [Non Zero Sumness]. Pensavo che avessimo finito le registrazioni, ero tornato in Inghilterra e mi è arrivata questa e-mail: “C’è ancora un pezzo. Puoi scrivere le parole?”. Non ho affatto sentito la pressione. Mi sono ispirato a Gary Newman: la canzone era diversa dalle altre e sembrava quasi un po’ punk. Spesso, quando scrivo canzoni, penso ad altri artisti come se dovessi mettermi nei loro panni. Sono un grandissimo fan dei PIL e dei Sex Pistols, quindi ho pensato: cosa farebbe John Lydon con questo pezzo? Ho quindi cercato di imitare John Lydon, e il suo sound si ritrova chiaramente in questo brano. All’epoca non avevamo ancora pubblicato nulla. Avevo un gruppo, ma facevo ancora lavori deprimenti e difficili. E tecnicamente da bambino ero stato in America con i miei genitori per andare a trovare mia nonna. In effetti ci ero stato. La frase “I’ve never been to the USA” (“Non sono mai stato negli Stati Uniti”) è quindi una bugia, ma si tratta di un personaggio che si mescola alla mia esistenza fatta di lavoro e di risentimento: nasce dalla mia vita all’epoca in un appartamento piccolo e modesto nella zona nord di Londra.
È stato un processo inconscio e molto veloce: non pensavo che questo pezzo sarebbe diventato uno dei brani più rappresentativi dell’album. Come succede per molte belle canzoni, meno ti preoccupi e meglio ti riescono. 

Lussemburgo, Regno Unito e Italia sono i Paesi da cui provenite, e al momento vivete in giro per l’Europa. Siete forse il gruppo italiano più internazionale: come gestite le differenze culturali?

Alex Neri: Oh, gli stereotipi saltano fuori spesso! Comunque, dal punto di vista culturale, non è una coincidenza che questo progetto sia nato a Napoli, perché Napoli è una città che è sempre stata influenzata da tantissime culture, e penso che questo si rifletta nella musica. E la nostra provenienza da diverse culture arricchisce la nostra musica.

Da un mix di culture a un mix di generi musicali. Avete mischiato dance, elettronica, indie e rock, quindi è difficile catalogare il vostro lavoro. Come definireste la vostra musica?

Alex Neri: Io e Marco avevamo alle spalle un’esperienza nell’ambito della musica dance. Negli anni Novanta la musica dance era l’unica a superare i confini italiani e ad arrivare in Europa. Quindi per noi è stato più naturale lavorare con un gruppo internazionale i cui componenti non fossero solo italiani. I Planet Funk esistono grazie alla musica dance.

Dan Black: Invece io e Alex [Uhlmann] non abbiamo legami con la musica dance, ed è questo uno dei nostri punti di forza, perché la tensione rende tutto molto più interessante. Si tratta di un matrimonio decisamente bizzarro.

Marco Baroni: All’inizio uno dei nostri obiettivi era fare qualcosa di diverso, volevamo esplorare altro, contaminare la musica dance con influenze indie rock. Chitarre, campionature di basso autentico, sintetizzatori. All’epoca era una novità assoluta.

A cosa pensate quando vi esibite sul palco? Quali sono i vostri pensieri?

Alex Neri: Cerco di vivere il momento, di concentrarmi sul presente. 

Marco Baroni: Mi godo il momento senza pensare troppo a quello che succede intorno a me. Cerco di sentirmi libero di esprimermi senza troppa pressione. 

Alex Uhlmann: Non penso a nulla. Credo che sia l’aspetto che preferisco. È quello che mi piaceva dello sport. È l’unico luogo in cui non pensi a nulla. 

Dan Black: È un processo molto automatico, ma da svolgere allo stesso tempo con consapevolezza. È quindi un po’ paradossale: sei presente a te stesso, lo stai facendo e ti guardi mentre lo stai facendo, ma una parte di te è coinvolta e sono le emozioni a guidare/condurre quello che stai facendo; vedi il pubblico e pensi: “Oh, questa cosa gli piace, continuo a farla e riduco invece questo altro aspetto”. Si tratta di una condizione davvero unica per me quando le cose vanno bene. Mi dico: “Ok, facciamolo. Proviamo a farlo davvero bene. Che si tratti di dieci persone o di 10.000”.

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